A Ragusa l’ultimo e commosso saluto a Don Nunzio Scrofani

Corriere di Ragusa Attualità

A Ragusa l’ultimo e commosso saluto a Don Nunzio Scrofani

RAGUSA – Si sono tenuti giovedì mattina, in Cattedrale, a Ragusa, i funerali di don Nunzio Scrofani, sacerdote della diocesi di Ragusa. Si è spento all’età di 82 anni. La Santa Messa è stata presieduta dal vicario generale della diocesi dì Ragusa Mons. Roberto Asta. Concelebrato Don Giuseppe Antoci e e Don Giovanni Cavalieri Un ricordo di don Nunzio Scrofani del vicario generale nella sua omelia. “Martedì 23 luglio alle ore 17.30 nella Casa di Riposo Beata Maria Schininà in Ragusa, dopo aver ricevuto il conforto dell’unzione dei malati, si è spento serenamente, consapevole di andare incontro al suo Signore, il nostro fratello sacerdote don Nunzio Scrofani.

Nato a Ragusa il 16 settembre 1941, è entrato nel Seminario Vescovile di Ragusa nell’ottobre del 1957, ed è stato ordinato presbitero da Mons. Francesco Pennisi il 15 agosto 1965 in Cattedrale. Ha svolto il suo servizio pastorale come vicario parrocchiale nelle parrocchie: S. Giovanni Battista in S. Croce Camerina dal 1965 al 1974; S. Giorgio a Ragusa dal 1974 al 1979; Maria SS. Annunziata e S. Giuseppe a Giarratana e Beata Maria Vergine di Lourdes in Contrada S. Giacomo-Bellocozzo dal 1979 al 1980.

Il 28 giugno 1980 è stato nominato parroco della comunità parrocchiale della Beata Maria Vergine di Lourdes. Per ben 27 anni ha svolto la sua amorevole cura pastorale presso la comunità cristiana della frazione di S. Giacomo-Bellocozzo. Nel 2007 il Vescovo lo ha nominato cappellano della Casa di Riposo Beata Maria Schininà delle Suore del Sacro Cuore di Ragusa. Servizio pastorale che egli ha svolto con generosità e impegno, promuovendo la preghiera comunitaria fra coloro che sono ospiti della struttura e mettendosi a disposizione per l’ascolto delle confessioni, fino a quando le forze fisiche glielo hanno permesso. Innamorato del bel canto e della musica, che fino alla fine non ha smesso di coltivare ed esercitare, don Nunzio ha unito una fine sensibilità pastorale ad una semplicità di vita e ad un candore che lasciavano trasparire la sua accentuata spiritualità di fanciullo evangelico. Gesù infatti diceva ai suoi discepoli: “se non vi convertirete e non diventerete come i bambini non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 18,3).

Il nostro Vescovo Giuseppe, in visita pastorale in Madagascar, unito a noi spiritualmente, ha voluto far pervenire un suo ricordo del caro don Nunzio: “fin dal primo incontro con lui ho avuto la sensazione di trovarmi davanti ad un autentico uomo di Dio, che con un sorriso carico di tenerezza e con uno sguardo luminoso irradiava amore umile e gioia profonda”. Un nostro confratello ha voluto condividere attraverso alcuni canali social un suo ricordo di padre Nunzio, evidenziando la sua buona e luminosa testimonianza: “In un mondo che spesso ignora la grazia, la tua vita è stata un inno alla bellezza divina, un richiamo a riscoprire la meraviglia di essere sacerdoti secondo il cuore di Dio. E così, mentre il tuo ricordo si fa eco, ci insegni che la vera missione è amare, che la semplicità è un dono, e che, come te, possiamo essere luce nel cammino per gli altri”.

“Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore”: è quanto abbiamo ascoltato dalla Lettera ai Romani. Tra le vicende, liete e tristi, della nostra vita, ci muoviamo con la coscienza di essere di Cristo, di vivere con Lui e per Lui. Siamo chiamati a vivere Cristo, la sua stessa capacità di amare il Padre e di servire l’umanità e la Chiesa. Lo Spirito Santo che abbiamo ricevuto ci sollecita a raggiungere la stessa statura morale e spirituale del Figlio di Dio, per partecipare della sua vita sofferente e, insieme, vittoriosa e gloriosa, passando attraverso la croce. Anche padre Nunzio ha abbracciato la croce con pazienza e serenità, facendo la volontà di Dio, sostenuto dalla sapienza evangelica racchiusa anche in alcune poesie-preghiere, che lui recitava a memoria. Una di queste, attribuita al gesuita Giovanni Bigazzi, è contenuta in un video che il periodico diocesano “Insieme on line” ha pubblicato ieri:

“Il mio penare è una chiavina d’oro… piccola, ma che m’apre un gran tesoro. E’ croce, ma è la croce di Gesù: quando l’abbraccio non la sento più. Non ho contato i giorni del dolore, so che Gesù li ha scritti tutti nel suo cuore. Mi han detto che, guardata dal di là, la vita tutta un attimo parrà. Passa la vita, vigilia di festa… muore la morte… il Paradiso resta. Due stille ancora dell’amaro pianto, e di vittoria poi l’eterno canto. La parabola dei talenti, che è stata proclamata, è una delle tre parabole contenute nel cap. 25 del Vangelo di Matteo con le quali Gesù invita i discepoli a misurare la vita e la fedeltà a partire dal giorno ultimo, quando si manifesterà nella gloria. La prima parte del racconto mostra l’agire di Dio (25,14-15); e così pure l’ultima parte (25,26-30). E’ Lui l’unico protagonista della storia. Tutto comincia da Dio e tutto trova in Lui il suo compimento. In mezzo c’è l’uomo chiamato ad esercitare la sua libertà tra le fatiche e le contraddizioni della vita.

La parabola evangelica descrive il rapporto che Dio instaura con l’uomo e pone l’accento da una parte sulla fiducia che Dio ripone nell’uomo e dall’altro sulla libertà e la responsabilità della persona. La storia inizia con l’appello di Dio: “chiamò i suoi servi” (25,14). Il verbo utilizzato è lo stesso che viene impiegato nella chiamata degli apostoli (Mt 4,21). Il versetto iniziale della parabola disegna perciò una cornice vocazionale, da una parte ricorda che l’uomo dipende da Dio, da Lui riceve la vita e tutto quel che serve per esercitare la sua missione; e dall’altra sottolinea che l’uomo è chiamato a vivere con responsabilità, cioè con la consapevolezza di vivere ogni cosa sotto lo sguardo di Dio. L’evangelista scrive che il padrone consegna ai servi i suoi beni (25,14). Non si limita a dare qualcosa ma consegna quello che gli appartiene. Viene esplicitata la somma consegnata ai singoli servi: “A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno” (25,15). Il talento di cui si parla è una misura di denaro. Secondo alcuni calcoli, un talento equivale a circa seimila denari. Un denaro corrisponde alla paga giornaliera di un operaio (Mt 20,2). Si tratta perciò di un importo di grande valore, segno della sconfinata fiducia che il padrone ripone nei servi.

Nella seconda parte della parabola si vede in che modo i servi rispondono alla chiamata. Il primo viene così descritto: “Subito andò a impiegarli” (25,16). Quel subito mostra la piena disponibilità, la sua gioiosa e generosa risposta. L’evangelista usa un verbo che indica il lavoro manuale. quel servo accetta la fatica che comporta la responsabilità, non si tira indietro dinanzi alle difficoltà. Per questo guadagna altri cinque talenti. E così pure il secondo servo. In questo caso, però, viene detto che ne guadagna solo due (25,17). La differenza non ha alcuna importanza, non incide affatto sulla ricompensa. Non importa il quanto ma il come. Ciò che conta è l’atteggiamento interiore con cui ciascuno vive la vocazione. Matteo utilizza questo stesso verbo (guadagnare) in un altro contesto dandogli un senso chiaramente spirituale: “Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello” (Mt 18, 15). Non è forzato dunque interpretare il guadagno in relazione ai fratelli e non solo alle cose. La nostra prima e più grande responsabilità è quella di nutrire e custodire i fratelli nella fede, accompagnandoli nel cammino della vita, come scrive in una Omelia un autore del secondo secolo:

“È veramente un guadagno non piccolo ricondurre sul cammino della salvezza un’anima che si era smarrita o perduta […] Perciò aiutiamoci l’un l’altro, così da condurre al bene anche i deboli e salvarci tutti, migliorandoci per mezzo della correzione fraterna”. Abbiamo la responsabilità di custodire nella luce di Dio la nostra vita, gli amici e i familiari, i fratelli e le sorelle nella fede. Abbiamo il dovere di dare il pane della verità alle persone che Dio affida alla nostra cura. Abbiamo la missione di far comprendere che senza Dio ogni benessere materiale è vuota sazietà.

In questa prospettiva emerge la stoltezza del terzo servo il quale, invece di faticare per impiegare bene i doni ricevuti, sceglie la via più comoda, quella meno pericolosa: “andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone” (25,18). Alla fine della vita, invece di presentare a Dio i frutti del proprio lavoro, quel servo si limita a restituire quello che aveva ricevuto (25,25). Il servo è consapevole di aver ricevuto una somma ingente, ma ha paura di fallire. Per questo nasconde il talento e lo restituisce intatto. Così facendo ha reso la sua vita inutile, l’ha privata di quella gioia che può nascere solo dall’amare e dal servire i fratelli. Ciò che conta è amare: “non c’è che l’amore che possa renderci graditi al Buon Dio”, scriveva Santa Teresa di Lisieux.

Carissimo don Nunzio, grazie per la tua luminosa testimonianza umana e sacerdotale, per l’amore che ogni tua parola e ogni tuo gesto irradiava. Prega per la nostra Chiesa diocesana e, in particolare, per il presbiterio; chiedi al buon Gesù, che ha vinto la morte con la risurrezione, di donarci la grazia di credere e sperare in Lui, vivo e presente con il Suo Spirito consolatore, amore più forte della morte. Amen.” Don Nunzio è stato parroco della parrocchia Beata Maria a San Giacomo Bellocozzo (da qui l’intervento di padre Antoci, uno dei suoi successori), successivamente è stato cappellano della Casa di riposo “Beata Maria Schininà” dove ha serenamente trascorso gli ultimi anni.

Ha collaborato Salvo Bracchitta

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